domenica, novembre 25

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Poi lo senti che arriva, il vuoto. Ed è un gran pezzo di stronzo, ti lascia lì malinconico e ti infila un bastone scheggiato nella ferita. e lo rigira. Ti dice che tra le mani non hai nulla che valga la pena di avere. Ti dice che qualsiasi cosa che fai, chiunque tu riesca a far finta di essere, non varrai mai un cazzo di niente. Nulla. Zero. Ognuno trova la sua strada per raccontarsi che in fondo è una bella persona. Poi piove merda dal cielo, e tu non hai l'ombrello. E non hai neanche scarpe. E ci sguazzi in quella strada piena di merda. La merda ti vuole dire chi sei, e chi dovresti essere, ti mette in gabbia. Tu scappi, provi a fuggire. Ma per non stare nella gabbia ti rinchiudi nella tua. Che non è più bella, che non è più comoda. E' solo più infida, perché ti ci sei messo tu, da solo, e credi di aver avuto scelta, credi di esser stato libero. E poi, poi comincia il temporale, e tu ancora non hai trovato quel cazzo di ombrello.

lunedì, novembre 19

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Il vuoto, e chi lo capisce. tu prendi una pera una mela una banana. Ci riempi un cesto, vuoto. Ecco, è pieno. Ci puoi mettere altra roba, tipo un ananas un mango e un pompelmo. Ora è molto pieno. Non sembra difficile. Riempire un vuoto, si può fare. Ora metti che sei solo, vuoto, e angosciato. Prova a metterti dentro, dal buco che preferisci, una pera una mela una banana. Ti senti meno vuoto? Forse con te funziona. Se ti senti pieno puoi considerarti profondo come un cesto di vimini. Ma magari con te non funziona. Con alcuni funziona la coca cola, gli zuccheri, pasti abbondanti, roba buona. Con te funziona? Sei profondo come un ristorante. O un fast-food, a seconda. Ora non so se ti senti vuoto, come ti puoi riempire. Il problema è di cosa sei vuoto, e di che qualità vorresti esser pieno. Se sei molto profondo, ma poi cosa vuol dire. Che scavi dentro invece che cercare fuori. Se scavi dentro da un po' e non trovi niente, forse devi cercare fuori qualcosa che ti riempa. Se sei vuoto, e ti angosci, vai fuori, e cerca qualcosa, senza angoscia. Inizia a lavorare. Magari scopri che funziona. Magari balla, magari scopri che funziona.

giovedì, novembre 15

I fumatori


La palla era nera, profumata, amara, fredda. Il caldo la bruciava, schioccando ogni briciolo di principio attivo. Da solido a gas, fumo. Da metallo a polmone. Da coltello a bottiglia. Questo il suo percorso, sempre lo stesso. Alcune volte passava attraverso l'acqua, raffreddandosi, pulendosi di alcune sue compagne strette, che la lasciavano, salutandola dall'acqua pulita. Sporcandola in suo onore. La morfina entrava dai polmoni ai capillari e dai capillari alle arterie e dalle arterie al cervello. E si spargeva, limpida, sonnolenta, se morfeo dovesse apparire sulla terra, sarebbe quella palla nera. L'ozio si infilava nelle viscere delle persone, accompagnate dalla nausea, forse una nausea che l'anima crea, davanti a quell'ozio. Una specie di ribellione, io son fatta per muovermi, non per stare ferma. Ma poi il corpo la zittiva, l'anima, beato nella sua analgesizzazione. Gli amici di oppio, per gioco o per amore, lo aiutavano a uscire dalla terra, quello non è il suo posto. Uno camminava avanti e indietro, inquieto, aspettando che il coltello si scaldasse sul fornello incandescente. Con trenta gradi alla notte, il fornello acceso, la tapparella abbassata. Quella voglia di sfarsi che a volte viene da un vuoto, a volte scopre un pieno. Gli altri, sulle poltrone, sulle sedie, sui divani. Aspettavano, con pazienza e ansia, il loro turno. La bottiglia era piazzata. Il coltello preso, le labbra, sporche e nere, si avvicinavano al buco dell'ozio. Il coltello friggeva la resina, chi camminava ora respirava, a fondo. Attento a non far uscire morfeo dalla bottiglia. Bel tiro. Ragazzo. Blocca il respiro. Poggia il coltello sul fornello. Hai fatto. Tocca ad un altro. Tocca a lei. Lei ha bisogno di un gentiluomo, non è abituata a queste cose, e in queste cose, i gentiluomini, son sempre apprezzati. Per quanto la più fanatica femminista fra le femministe fanatiche possa negarlo. Alcuni aprono la porta, alcuni poggiano il coltello. Il piacere è sempre lo stesso. Un tiro, bello, la plastica che si squaglia insieme alla palla di morfeo. Lo sfarsi da dove arriva? Qui si fuma colla, e nemmeno si sa. Un caldo della miseria, la gente che tarda a fumare, la gente che non tarda che si innervosisce con chi tarda. I primi sintomi di astinenza. La dipendenza si insinua nella mente dei fumatori. C'è chi va a vomitare. Poi sta meglio. Alla fine, son tutti lì, sui divani, rilassati, oziosi, parlanti, ridenti. Non son poi così male.

mercoledì, novembre 14

Il camion (pt.2)


Il camion è lì, è fermo, a due centimetri dalla tua testa. Immobile. Frenando non ha nemmeno alzato polvere. Come se l'avessero immobilizzato. Come se un uomo gigante e invisibile l'avesse preso completamente dalla testa alla coda e l'avesse bloccato tutto completamente nello stesso istante. Senza un sussulto. E tu ormai quasi ci speravi, che ti passasse sopra, quasi desideravi sapere che sapore hanno pneumatici in bocca. E una bella cresta nera sulla parte sbagliata della testa. Dovrai aspettare il prossimo. Ti guardi intorno, poi ti volti, e non c'è più.
Cammini un po'. Cammini qualche ora, è tutto tranquillo. Poi d'un tratto scorgi un luccichio. In fondo, all'orizzonte. Un luccichio che sale. Un camion. Viene verso di te. Tu hai un deserto di scelte. E ti ritrovi lì, a fissarlo.  

martedì, novembre 13

Il camion


Poi arriva quel camion, e tu non puoi farci nulla. E' lì, ti guarda, ha due occhi, luminosi. Ti acceca, ed è lì, si avvicina. A te rimane sempre meno tempo, sempre meno, ancora meno. Ancora. Secondo dopo secondo, e tu sei lì, nel deserto, con questo grosso mostro diretto nella tua direzione. E qualcosa ti dice che non potresti essere in nessun altro posto, e non credi di poter spostarti. Credi di non averne le forze, non ce le hai. Non le senti. Eppure c'è il deserto. Eppure il camion è solo. Nessuno è dentro. Difficilmente ti seguirebbe. E' quasi come se ti dicesse, ehi spostati ti sto venendo addosso. Conviene che ti sposti. Ma niente, non puoi farcela. Stai lì, immobile, incantato da quei fari. Come se fossero l'unica cosa reale, l'unica cosa degna di esser conosciuta. Del resto sei nel deserto. Non vedi nulla o forse non lo vuoi vedere. Di sicuro c'è solo il camion, almeno per te. E passano i secondi, e mangia i metri. La polvere si alza. Puoi iniziare a sentire il suono, il ruggito che ti viene incontro. Non è bello, ma beh non è neanche brutto. Poi ci pensi, magari mi sposto, ma poi? Poi c'è il deserto bello. E cosa ci faccio io solo, nel deserto? Forse è meglio il camion, di sicuro è la cosa più facile. E quindi il dubbio, potresti salvarti, potresti scansarti ma non vuoi farlo. E intanto è vicino. Ora puoi sentirne il passo sulla sabbia, le ruote che alzano terra e piante e caldo, nella polvere della terra arida. E' un momento. E' lì, davanti a te, tre metri. Ce l'hai addosso. Ormai non puoi più scegliere quel che potevi scegliere. Due metri. Sei fregato amico. Uno.

lunedì, novembre 12

Il Malisku


Stava pisciando. Lo faceva ogni mattina, la tigre era là, lo fissava. Aveva sangue freddo a stare a due passi. Sulla parete della stanza, prima del buco del bagno scavato nella terra, c'erano venticinque teste di tigre. Venticinque ne aveva incontrate, venticinque ne aveva battute. Era vittima del suo dono, nella sua tribù veniva chiamato Il Malisku. L'ammazzatore. Quella stava lì. in genere era diverso. Non erano loro che venivano da lui. Era lui che andava da loro, quando qualcuno le avvistava. Non era raro, nella giungla indiana, succedeva spesso. Il suo precettore, glielo ricordava sempre, attento Meibon, attento quando vai in foresta, e prima di andarci, impara a fischiare. In genere lui sentiva il fischio, da lontano, correva, trovava un uomo del suo villaggio, la tigre vicina, prendeva il suo kaschuki, un bastone incurvato, faceva la sua danza. Il finale era il solito, una testa cadeva. Il fischio non era un fischio normale, tutti i piccoli Baili lo imparavano a 3 anni, quando imparavano a scacciare i serpenti con le braccia. Lui a tre anni sapeva fischiare, sapeva scacciare i serpenti, e cacciare i babbuini. Nella tribù il saggio non si ricordava di cacciatori che avevano iniziato così presto, e non conosceva leggende che ne narrassero le gesta. Era l'unico, Meibon, il Malisku. Il primo. La terra gli aveva dato un dono. Il dono diventava la sua condanna. Lei era lì. E lo fissava. Senza paura. Lo fissava, e lui finì di pisciare. La fissò, prese il suo kaschuki, iniziò a danzare. Si voltò. La tigre, non c'era più.  

domenica, novembre 11

Memorie di un pomeriggio di mezz'estate di uno stracotto

Era un pomeriggio di inverno, era solo, single, lui. Era sempre stato così. Ma non credeva che potesse esserlo ancora di più. Ora pensa a un uomo, pensa che sia facile esserlo. Pensa ora che sia tu. E non quell'altro. Chi è meglio, o chi è peggio. Se non fosse mai esistito un uomo così, o se non fosse mai stato pensato e tu lo inventassi. Che credi uscirebbe? Un uomo migliore, ma forse no, o ma forse si. E questo uomo, viaggiava su un tram, In San Francisco. Era buio, i lampioni accesi ai lati della strada illuminavano gli ultimi barboni rimasti, questo era quel che era, questo non poteva dimenticarlo. Il bordo del marciapiede esaltava la barba di un povero stronzo, avevan lo stesso colore. Questo è quel che, aldilà di ogni cosa che pensasse, costituiva la sua personalità, la sua barba. senza la sua barba, color marciapiede di san Francisco, non era praticamente niente, non era praticamente un uomo. Ora non so come portasse avanti quel che c'era da portare avanti, quando si faceva la barba. La tagliava, ed perdeva ogni importanza, entrava nei locali, nessuno lo vedeva, nessuno lo riconosceva. Era triste in realtà. ma anche molto felice. Questo è un ossimoro, lui era pieno di ossimori. Era un ossimoro, più che un uomo. Ora pensava a tante cose, pensava che lei non fosse quella giusta, pensava a quanto fosse geloso. Aveva paura che ogni persona che le passasse accanto, se la sarebbe scopata. E beh? cosa importava, niente in fondo. In fondo niente. E in fondo gli sembrava la tragedia più grossa della sua vita. Ora non sapeva, ora non poteva capire, tutto ciò che lo portava a ragionare, era il suo innamoramento. Non capiva che i pensieri non erano la realtà. E anche quando la rappresentavano, erano una sua rappresentazione. Che poteva saperne lui, dell'amore. Era giovane, era inesperto. Non aveva fatto esperienza, e ancora non aveva capito la differenza tra amore e innamoramento. E ancora non capiva che l'innamoramento non era da accostarsi allo zerbinaggio. Uno zerbino, è uno zerbino. Punto, con uno zerbino le persone si puliscono i piedi, non si innamorano degli zerbini. non che lui lo fosse uno zerbino, lo faceva. Se ne rendeva conto, eppure era pazzo di lei. Non capiva, che era pazzo di lei. Ma prima il rispetto, prima di tutto, non permettere mai che una persona ti faccia fare quello che vuole. Non permetterglielo. Nulla poteva cambiare, che lui rimanesse, che lui se ne andasse. Questo non avrebbe cambiato il suo amore per lei. Questo non avrebbe cambiato il suo affetto nei suoi confronti. Se non è uno, è l'altro. Da una parte l'aveva stancato, dall'altra era sempre pazzo di lei. Questo era comprensibile. Era innamorato. Punto. Cercava di ficcarselo in testa. Punto. Tutti i pensieri su di lei, su di lui, sul mondo, sulle cose, sul suo sentimento, su quello che doveva fare. Erano macchiati dall'illusione che si era piazzata nella sua mente. Nella stupida speranza che lo accompagnava. Che un giorno quello che lei provava, sarebbe cambiato, e che lei, era l'unica giusta per lui. E che doveva impedire che andasse con altri, o con altre. E che la sua vita eccitante fosse la sua vita. E che tutto aveva un senso con lei, e senza di lei non lo aveva. Ma doveva accettare quello che era, e quello che sarebbe stato. Ora chi lo sa, quel che sarebbe stato. Però eran tutte stronzate, nella sua testa, quello che voleva non era quello che pensava di volere. Era solo merda nella sua testa. Lui prima di tutto, poi gli altri. Ora sarebbe diventato stronzo come desiderava? Forse, o forse no. Sarebbe esistito un momento di pace nella sua testa confusa? Mettere ordine, questo doveva, ma non c'era da mettere ordine. Ma non c'era nulla da capire, era innamorato, e basta. Tutto il resto era nulla, tutto il resto erano pippe. Il desiderio di vincere, come poteva vincere? non poteva. Perché era una gara contro il nulla. L'unico modo di vincere, era che lei si innamorasse di lui. Aveva alcun controllo su questo? No, nessuno, niente. Doveva stare tranquillo, tutti i pensieri, su chi fosse, su chi non fosse, su chi cazzo dovesse essere. Erano finti, falsi, nulla. L'inferiorità, era imbecille, era imbecille. era imbecille. Lei era furba, furbissima, tanto, sveglia, sveglissima, tanto. Ma non era perfetta, e questo era da capire. E non era un mostro, e questo era da capire. Era una persona come tutte le persone. E in un rapporto si è in due. E lui doveva prendersi le responsabilità di quello che succedeva. E accettare che se lei si comportava così, con lui, era perché lui, si comportava in un certo modo, con lei. Ora lui doveva finirla, non c'era bisogno aspettasse di rompersi le palle. L'esperienza gli insegnava, che sarebbe arrivato quel momento. Sarebbe arrivato e basta, e nulla poteva impedirlo. Avrebbe prolungato la sua sofferenza, il mettersi in mani altrui. Il sentirsi inferiore ad un altra persona. Mettere tutto in cataloghi, e in etichette, e in eccetera eccetera. Doveva piantarla, doveva mollarla, doveva finirla, la storia non aveva il senso che lui voleva avesse, e quel senso non sarebbe arrivato. Chiudere, ecco la parola. Chiudere e punto. E chi lo dice, e chi lo fa, sicurezza di sé. E pochi confronti, c'è poco da confrontare tra gli esseri umani, la paura è completa, la paura è duplice. Inevitabile averle.